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Il Forum è nato dalla giornalista Marilù Mastrogiovanni ed è organizzato da Giulia Giornaliste e dalla cooperativa IdeaDinamica, con l’obiettivo di “creare ponti, abbattere muri: promuovere una riflessione sul giornalismo delle giornaliste investigative, come presidio di Democrazia, dunque di Pace”.

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di Nurcan Baysal; traduzione a cura di Francesca Rizzo

Era poco dopo mezzanotte. Io guardavo la televisione, mentre i miei figli giocavano vicino. Il più piccolo giocava con i Lego, il più grande con il cellulare. Con noi c’erano anche mio marito e un amico. Una normale domenica sera. Tutt’a un tratto ho sentito un frastuono tremendo. Inizialmente ho pensato fosse un terremoto, poi ho realizzato che il suono veniva dalla porta d’ingresso. Con il ricordo recente della guerra, ho creduto che la nostra casa fosse sotto attacco, che la stessero bombardando e le stessero sparando contro.

Ho urlato ai miei figli di restare dov’erano, di non avvicinarsi. Abbiamo capito presto che gli uomini fuori dalla porta erano poliziotti, e che stavano cercando di sfondarla. La porta era troppo robusta, allora le pareti intorno iniziavano a sgretolarsi. Non sono riusciti ad entrare dalla porta principale, quindi hanno attraversato il giardino e sono entrati in casa dalla porta della cucina.

Circa 20 poliziotti appartenenti alle Forze speciali, con Kalashnikov e altre armi in mano, hanno preso d’assalto la nostra casa. Con tutti i fucili puntati contro di me, il capo della squadra mi ha chiesto se fossi io Nurcan Baysal. Dopo il mio “sì” ha detto che avevano un mandato per perquisire la mia casa. Gli ho chiesto se avessero un mandato anche per abbattere la mia porta. Ha confermato che sì, il pubblico ministero aveva dato anche il permesso di abbatterla. Gli ho detto che tutto questo era illegale e ho chiesto il nome del pubblico ministero. Nessuno ha risposto.

In breve, ecco come sono stata arrestata. Sono entrati a casa mia, una casa nella quale sapevano che abitavano anche due bambini piccoli.

Solo il secondo giorno di detenzione ho saputo di essere trattenuta a causa di cinque tweet che ho scritto contro “la guerra ad Afrin”. Dicevano:

  1. Dai carri armati non escono ramoscelli di ulivo[1], ma bombe. Quando cadono, le persone muoiono. Ahmet muore, Hasan muore, Rodi muore, Mizgin muore… Le vite si stanno esaurendo…
  2. Chiamare “ramoscello d’ulivo” la guerra, la morte. Questa è la Turchia!
  3. La sinistra, la destra, i nazionalisti e gli Islamici sono uniti dall’odio contro il popolo curdo
  4. Alla conquista di cosa, credete di andare? Quale religione, quale credo appoggia la guerra e la morte? (Ho scritto questo tweet dopo che l’autorità religiosa turca ha invocato la vittoria durante un sermone a favore dei militari)
  5. (Retweet della foto, postata da un altro giornalista, di un bambino morto ad Afrin) “Chi vuole la guerra, guardi questa foto, un bambino è morto”

È per questi tweet che sono stata accusata di propaganda terroristica, e di istigazione ad azioni provocatorie. Come potete vedere, questi tweet non contengono nessuna propaganda terroristica, ed io non ho mai chiesto, né chiedo, azioni provocatorie o atti violenti.

"Fermiamo la guerra dello Stato turco contro i Curdi, rompiamo il silenzio": le proteste della società civile. Fonte: https://zcomm.org/znet
“Fermiamo la guerra dello Stato turco contro i Curdi, rompiamo il silenzio”: le proteste della società civile.
Fonte: https://zcomm.org/znet

Sono cresciuta con la guerra nella città di Diyarbakır. Non so davvero come possa essere una vita normale. Ho trascorso gli ultimi vent’anni a battermi per la pace, la democrazia, la giustizia e la libertà. Ho fondato enti, organizzazioni della società civile per una soluzione pacifica della questione curda. Persino nei giorni più bui del 2015, durante il bombardamento nel cuore del distretto di Sur, nella provincia di Diyarbakır, ho lavorato per aprire un dialogo tra il governo e il movimento curdo.

Ho organizzato numerosi incontri nel mio ufficio, riunendo membri del partito di maggioranza, del movimento curdo ed intellettuali, per cercare di fermare le morti nella regione. Come attivista per la pace e per i diritti umani, durante la mia vita ho avuto a che fare con la migrazione forzata, la sorveglianza dei villaggi, le vittime delle mine, la povertà, le donne rapite dallo Stato islamico, il disarmo, i cadaveri abbandonati per le strade, denunciando i crimini di guerra e i crimini contro l’umanità.

Dopo tre giorni nel Dipartimento anti terrorismo, sono stata rilasciata su cauzione, ma ho ricevuto anche un divieto di espatrio. Nell’ultima settimana, altre 311 persone sono state arrestate solo per aver detto “no” alla guerra ad Afrin. Lo Stato sta cercando di mettere a tacere le voci contrarie alla guerra. Vogliono che tutti i settori della società, media compresi, siano a supporto della loro guerra.

Come scrittori, attivisti, intellettuali e giornalisti, la nostra responsabilità non è nei confronti dello Stato. Siamo responsabili nei confronti della nostra gente, dell’umanità, della storia, della vita, dei giovani turchi e curdi che in questo momento stanno morendo, delle loro madri.

La settimana scorsa, il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha minacciato che chi partecipa alle proteste contro la guerra pagherà un prezzo pesante.

Sì, Presidente, stiamo pagando un prezzo altissimo. Ma mi creda, ne vale la pena. Forse alla fine potrà esserci vita, e pace. Questo Paese merita la vita e la pace.

 

 

[1] “Ramoscello d’ulivo” è il nome dato all’operazione militare dell’esercito turco contro i Curdi nella zona siriana di Afrin, al confine con la Turchia

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